Cosa pensavo mentre sollevavo il coltello?
Forse non lo so, o forse sì. Forse a tutto, forse a niente.
Credo di essere stato per qualche secondo totalmente lucido, di non aver
provato altro che un freddo vuoto. Constatavo, semplicemente: il coltello si abbassa
centimetro per centimetro sul suo volto pietrificato dal terrore, il sangue
schizza in una formazione a cono che si allarga fino ad andare dappertutto
intorno alla vittima, le gocce mi sporcano il viso, le mani, la camicia bianca.
Di sicuro era premeditato. Inutile dire che si è trattato di
un incidente: nel momento in cui ho afferrato il coltello, l’ ho fatto per
ferire. Perché io non sono più l’ uomo, io sono la belva che è stata fecondata
nel mio corpo e nella mia mente da stupri ripetuti fatti di inseguimenti,
pestaggi, insulti, sfregi, manifestazioni di odio di ogni sorta. Non si nasce
stronzi, ci si diventa. Lentamente, come una gestazione, dentro di te comincia
a formarsi quel feto ghignante fatto di odio nero come l’ inchiostro. E, col
tempo, rischi di diventare tu stesso quel feto di autodistruzione.
“ Ci ho provato davvero, Vittima”, pensavo mentre lentamente
estraevo il coltello dal corpo, ed ero sincero. Ero perfettamente conscio del
fatto che il vecchio me avrebbe provato un moto di terrore al pensiero di
terrore al solo pensiero, perché credeva che bisognasse sforzarsi di trovare
sempre qualcosa di buono in tutti quanti. Lo credo ancora, ma ogni mia
convinzione è sfumata, io stesso sono stato posseduto da quella cosa che ho
alimentato con il mio dolore e l’ odio altrui. Quel miscuglio di denti aguzzi
ridenti, lacrime, bestemmie, mani che si stringono a pugno per evitare di
scoppiare, respiri profondi per non piangere in pubblico, finestre mezze aperte
e quel personaggio che non è totalmente me che guarda con occhi lucidi la
strada.
Tanti, messi alla prova, hanno la forza di non farsi
contagiare... di essere superiori. Non passa notte senza che pensi che avrei
voluto esserlo anche io, ma questa è la doppia lama dell’ imperfezione: da un
lato garantisce la bellezza di tutto ciò che esiste (se tutto fosse perfetto
saremmo produzioni in serie), ma c’ è quel lato oscuro della luna, quella
doppia faccia della medaglia che se non la controlli può portare alle cose
peggiori di cui si possa sentire.
Non ce l’ ho fatta: mi si sono rotte le acque e la belva mi
ha contagiato come un’ infezione che si espande. Il cancro ha raggiunto tutto:
prima le mani, poi gli avambracci, il petto, il cuore pulsante, la gola , il
mento, la barba, la bocca, gli occhi iniettati di sangue e infine il cervello.
Io e la belva siamo diventati la stessa persona. Forse è sempre stata parte di
me e aveva solo bisogno di emergere.
Non ho veramente pensato mentre sollevavo il coltello. È
stato un secondo surreale, e in men che non si dica l’ equilibrio del suo corpo
è stato interrotto da un corpo estraneo. C’ era una forza nella mia mano,
qualcosa che urlava fino a ritrovarsi con la voce roca e graffiante: « Vedi,
bastardo?! Vedi?! Capisci cosa si prova ad essere attraversato ogni secondo
della tua vita da coltelli invisibili che ti stuprano con la forza di mille
bruti, lasciandoti ciondolante e leggero come l’ aria, malandato come un ciocco
di legno intagliato a furia di colpi d’ accetta? Tu mi hai violentato, tu mi
hai ingravidato della belva che ora ti sta uccidendo! Guardami! Non sono più il
signor Valeri, nel suo corpo c’ è anche qualcun altro: IO SONO TUO FIGLIO!»
Il corpo sta diventando irriconoscibile colpo dopo colpo,
mentre il coltello penetra la sua faccia, il ventre, il collo, le braccia, e
infine il cuore.
E non potrò mai dimenticare che mentre lo facevo, ho provato
piacere. In quei primi momenti la vendetta è dolce, la parte amara arriva solo
in seguito. E ora ( sì, “ora”, perché non c’ è più distinzione fra passato e
presente, tutto nella mia mente è confuso, tutto è irreale, tutto sta
accadendo, è accaduto, accadrà. Il mio modo “sbagliato” di alternare questi
tempi non è casuale: è la totale e più libera espressione del mio distacco
dalla realtà mentre compio/compivo questo gesto folle), e ora, dicevo, non
provo altro che la soddisfazione perversa di aver comunicato con qualcuno,
perché non è altro che comunicazione, tutto questo: gli ho fatto provare il mio
dolore, ho espresso quello che covavo dentro, glie l’ ho fatto sperimentare.
Non è comunicazione, questa?
Poi, c’ è una trasformazione. Il respiro si fa più regolare,
la bocca smette di emettere grida, il mio volto acquista un’ aria più umana,
perdendo sempre più l’ aspetto demoniaco che aveva avuto fino a poco prima. I
muscoli si rilassano, la stretta sul manico del coltello si allenta. E,
lentamente, la belva muore, come una farfalla che una volta sbocciata deposita
le sue uova e poi si estingue. Una farfalla di morte, delle uova dal guscio di
veleno.
Dopo aver fatto la parassita con me, la bastarda muore e mi
lascia solo. O forse si è solo ritirata in attesa di essere fecondata di nuovo.
Rimango da solo e una consapevolezza che credevo di aver smarrito riaffiora
nella mia mente. I miei neuroni-specchio, quelli che ci rendono esseri capaci
di empatia, si riattivano a poco a poco. È come svegliarsi da un sogno, e
rendersi conto che è vero.
Che cosa è successo? Dov’ è finito il signor Valeri, quell’
uomo tranquillo che faceva volontariato ed era sempre sorridente? Eccolo.
Eccolo qui con un coltello insanguinato stretto nel pugno.
Grido come non ho mai gridato prima, il terrore mi
attanaglia sempre di più. “Non è possibile, non è possibile, non è possibile”,
continuo a ripetermi. Sono giunto al limite della bassezza umana, sento che più di così non potrei sprofondare.
Stavo ancora gridando quando la polizia venne a prendermi.
Grido in lacrime mentre mi portano via. Griderò per molte notti in cella.
E mai, mai potrò dimenticare che anche se in seguito mi sarei ravveduto, in quell' istante che non ci ha messo anni a a passare in cui il coltello affondava nella carne ho pensato che il suo dolore fosse la cosa più dolce che avessi mai gustato
Dolce come zucchero.
Michele Giuli
Dolce come zucchero.
Michele Giuli
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