4 luglio 2012

Un sogno


Odio i funerali perché mi ricordano sempre le persone che non ci sono più. Odiosissima frase fatta eppure ogni volta che metto piede in chiesa per assistere ad una funzione non posso far altro che farmi sommergere dalle lacrime.
Quella volta non faceva eccezione. Il pomeriggio precedente una delle mie amiche più care, Arianna,  mi aveva chiamato per annunciarmi la scomparsa del marito di una signora con cui collaboriamo per alcune manifestazioni importanti nel nostro paese e che non era semplicemente una conoscente dopo tanto tempo. In realtà per me il marito era più una sorta di mito vivente, l’avevo incontrato solo qualche volta di sfuggita, ma Maria era una sorta di zia per me e quindi quella mattina io e Arianna ci incontrammo fuori dalla chiesa. Andammo per tempo, sia per portare i fiori, sia per non essere costrette a rimanere sul fondo come una di quelle comparse che si presentano all’ultimo momento. La celebrazione non doveva essere solo un passaggio, ma un momento di riflessione e di saluto vero. La partenza per un mondo sconosciuto e insondabile che in qualche modo fosse anche di conforto tangibile per Maria.
La chiesa del nostro paese non è molto grande, costruita nel 1735 ha i tipici connotati del tardo-barocco piena di stucchi e di decori dorati, come gran parte delle chiese che si trovano nella nostra regione, ma stranamente quel mattino non mi diede la solita sensazione di soffocamento, ma uno strano senso di consolazione. Forse perché le sue cappelline, le sue panche scolpite, i dipinti di santi ad ogni altare avevano un potere calmante con la loro familiarità. Non che fossi una fedele frequentatrice delle funzioni domenicali, ma la Collegiata faceva parte del mio paese, un simbolo visibile della mia appartenenza alla comunità e i cenni che continuavano a rivolgerci i nostri conoscenti contribuivano ad aumentare quel senso di affiatamento e di comunione.
Ci sedemmo nelle file laterali, e proprio di fronte a noi c’era Maria. Avevamo deciso senza neanche parlare di posare i fiori e andare alla fine a dare le condoglianze per lasciare alla famiglia qualche momento di raccoglimento. Non tutti la pensarono come noi e una fila interminabile di persone continuava ad avvicinarsi ai primi banchi. Gianluca era un membro autorevole del nostro paese, un marito affettuoso, un padre attento, gentile, spiritoso ma molto diretto. Si era ritrovato spesso nel pieno di alcune discussioni perché mancava di diplomazia e finiva per dire quello che pensava con impeto e senza filtri ma tutti lo adoravano perché leale e sincero. Vedere l’affetto di chi lo conosceva era un colpo al cuore e continuavo ad asciugare lacrime che scendevano silenziose.
Era vero Gianluca stava male, aveva avuto diversi problemi di salute negli ultimi mesi, era stato anche operato, ma nelle ultime settimane stava meglio, si era notevolmente ripreso. Allora perché diavolo era morto? Le solite domande che ci facciamo tutti in presenza dell’onnipresente figura incappucciata con la falce in mano.
La messa iniziò in punta di piedi con i passaggi di rito, le preghiere, le letture e l’omelia del parroco. Piangevo sommessa, come Arianna al mio fianco e ci stringevamo la mano, cercando di consolarci a vicenda. Ma per tutto il tempo della funzione i miei occhi erano su Maria e quelli che presumevo fossero i figli. Il più grande Massimo, era sposato, un uomo adulto con la propria famiglia che avevo conosciuto un paio di anni fa, soprattutto quando accompagnava Maria in piazza, l’altro non l’avevo mai visto, ma era dolcissimo. Sempre al fianco della madre le accarezzava la schiena, le baciava i capelli e si stringeva premuroso a lei, cercando di consolarla. Quando era crollata mentre leggeva la lettura,  il ragazzo si era sporto per sorreggerla e non l’aveva abbandonata un attimo. Era così tenero e mi misi ad osservarlo. Mi vergognai terribilmente, accidenti ero ad un funerale e mi mettevo a fare apprezzamenti sul figlio del defunto. Ero davvero pessima, ma lui molto, molto carino. I capelli castani scompigliati gli ricadevano scomposti sulla fronte, mentre una mano era sempre intorno alle spalle della madre con l’altra se li scostava, passandocela in mezzo e scompigliandoli sempre di più. Alto e slanciato indossava un cappotto nero, che gli pendeva sbilenco sulle spalle piegate in avanti con il collo infossato in mezzo come se non riuscisse a sostenere il peso  della testa. Era stanco, dondolava incerto sulle gambe ma non osava allontanarsi da sua madre, che evidentemente aveva un gran bisogno di lui mentre Massimo, gli lanciava ogni tanto sguardi sfuggenti.
Ma al momento in cui il parroco iniziò a parlare per l’omelia distolsi il mio sguardo dal ragazzo e prestai attenzione alle parole che risuonavano per la chiesa. In realtà ero disgustata dai luoghi comuni che andava cacciando il prete “l’ha voluto Dio”, “era davvero un brav’uomo”, “ora è in pace” e via dicendo senza essere di reale conforto per nessuno dei presenti. E quando iniziò a parlare dell’anima ero disgustata. La resurrezione eterna, la nuova Pasqua e altre cose del genere, quando in realtà non  sapeva bene cosa stesse dicendo. Lo so, ero in un luogo in cui non potevo aspettarmi niente di diverso, ma era normale per me iniziare a domandarmi cosa fosse davvero l’eternità. In fondo che ne sappiamo? Che prove ci sono? Ma mi rifiutai di pensare che quando abbiamo esalato l’ultimo respiro, non esistiamo più, che non c’è niente al di là della nostra vita su questa terra e che verremo mangiati dai vermi, corrotti e irreparabili sotto terra con solo una foto, su una lastra di marmo, a ricordarci di noi.
Perché pensare che non c’è via d’uscita, che il mare del tempo risucchi tutto nella sua morsa indelebile? Perché non sperare nella possibilità della fuga, nella certezza di esistere anche dopo? Ogni cultura ha trovato il modo per credere che la nostra vita mortale non finisca, ma anzi che sia solo il primo passo. E che sia una consolazione o una verità, è un modo per sopravvivere, per non cedere e l’eternità è uno scudo per proteggersi. Il fatto è che quando si è di fronte alla morte, di fronte alla sicurezza che le persone che amiamo non esistono più, l’eternità è solo una favoletta. Domani non è oggi, il futuro non riserva che sorprese e ora, nel presente, non abbiamo che amare sicurezze e l’eternità e Dio sembrano una truffa, altro che scommessa pascaliana. L’unica idea che riusciva a consolarmi era che la sofferenza di Giancarlo era stata spenta come un interruttore, come se la morte non fosse una totale ingiustizia sia da vecchi che da giovani. Eh si il tempo che scorre, gli acciacchi che si  moltiplicano, il dolore, rendono inevitabile la “nostra sorella Morte” ma resta sempre inaccettabile quando ci colpisce da vicino.
E quel giorno, quando il prete smise di parlare per proseguire la cerimonia che si sarebbe conclusa al cimitero io scoppiai in lacrime, persa per tutto quello che ci circondava. Quel senso di insoddisfazione che mi dilaniava non se ne andava, neanche con lo sfogo del pianto, e mi consumava da dentro. Il ragazzo sembrava sempre più ansioso, non sapevo se per la madre o per se stesso, ma la sua espressione sconvolta mi attirava, sarei voluta andare lì a cancellare le sue lacrime e neanche lo conoscevo. Mi sentivo un mostro per provare attrazione in un momento così drammatico, ma che razza di persona ero? E Maria? Lei era sconvolta e incapace di sostenere il peso della consapevolezza che suo marito non c’era più. E io pensavo a suo figlio.
Alla fine rimasero solo i discorsi inutili del dopo messa, quando tutti cercavano di approcciare la famiglia in fretta, per sfuggire dall’obbligo e da quel luogo pieno di tristezza. Le solite parole biascicate tanto per dire qualcosa. E noi? In realtà nel marasma avevo perso Arianna e mi avvicinai da sola ai primi banchi, timorosa. Che diavolo avrei detto a Maria? Ero incerta, sapevo solo che non avrei pronunciato banalità o così mi auguravo. Ma quando mi ritrovai Maria davanti non ci fu bisogno di dire niente. Ci abbracciammo e lei mi ringraziò per essere andata, non se lo aspettava. Le risposi che era il minimo. Rimanemmo strette per un tempo interminabile come se lo spazio intorno a noi fosse congelato.
Quando ci staccammo feci le condoglianze a Massimo stringendogli la mano e davanti al ragazzo sconosciuto mi fermai imbarazzata. Avevo fantasticato su di lui ma non sapevo cosa dirgli. Mi bloccai a guardarlo e lui si sporse per abbracciarmi, così come aveva fatto sua madre. Mi accarezzò i capelli e mi sussurrò leggero “Grazie”. Rimanemmo a fissarci negli occhi per quelli che mi parvero anni, poi arrivarono alcuni suoi amici e mi allontanai dopo aver accennato un sorriso e mi avviai fuori dalla chiesa per raggiungere Arianna.
Poi il resto corse via veloce e la marcia funebre verso il cimitero fu straziante così come posare la bara sotto terra. Quando tutto  fu concluso sentivo solo un gran vuoto. Ci avvicinammo ancora per salutare Maria e i suoi figli e congedarci definitivamente e in un attimo di riconoscimento suo figlio minore arrossì, imbarazzato per il suo gesto impulsivo.
Mentre tornavo a casa continuavo a chiedermi perché, se ci fosse un senso e se davvero oltre lo spegnersi del respiro ci fosse qualcosa.
Quella notte inquieta feci un sogno strano. Ero a pochi passi da casa di Maria e Gianluca compariva per dirmi di andare dopo una settimana a trovare sua moglie a casa loro. Non ci feci caso e mi immersi nello studio, ma la notte seguente e quelle successive Gianluca continuò a comparire nei miei sogni e teneva una specie di conto alla rovescia. Fino a che l’ultima notte mi disse “Domani pomeriggio vieni a casa nostra”.
Ero titubante ma mi decisi comunque ad andare, a fare cosa non lo sapevo ma Gianluca me lo aveva chiesto e lo potevo accontentare, non  mi costava nulla.
Una volta giunta lì mi venne ad aprire il figlio di Maria:
“Ciao!” mi salutò.
“Ciao, sono venuta a trovare tua madre Maria”.
“Entra. È uscita un attimo ma sta per rientrare. Puoi aspettarla  al caldo”.
“Grazie”.
Ci sedemmo sul divano e come riscossa da un sogno mi girai verso di lui.
“Scusa non mi sono neanche presentata sono Cassandra.”
“Si lo so me lo ha detto mia madre. Io sono Paolo” e mi porse la mano e gliela strinsi indugiando un po’ troppo.
Dopo un silenzio imbarazzato iniziammo a parlare come se ci conoscessimo da una vita, senza smettere un attimo, senza saltare niente e quando rientrò Maria ci fermammo per poco per poi ricominciare da dove ci eravamo interrotti. Era tutto così perfetto e quando finalmente alzai gli occhi per consultare l’orologio mi accorsi che erano le otto e trenta e mi invitarono a cena.
Non potei non ringraziare Gianluca e quella stupida questione dell’eternità perché mi sembrava davvero che il suo spirito continuasse ad esistere al di fuori del suo corpo. Era reale e mi aveva concesso la possibilità di conoscere suo figlio Paolo, quando io non sarei mai andata a casa loro. E quell’ incontro inaspettato addolcì la tristezza e il dolore per la fine di una vita.
                                                                                                                           Annachiara

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